ANATEORESI UN CASO DI DIABETE

ANATEORESI UN CASO DI DIABETE

J.X. era un uomo di mezza età affetto da diabete. Entrò perfettamente in ISRA e da subito vivenció, con profonde abreazioni, le scene più traumatiche della sua vita perinatale.

Dato che il materiale che via via otteneva dirigeva verso la possibilità che il nucleo della malattia stesse in un cattivo petto materno, cosa del resto piuttosto abituale nei casi di diabete, iniziai un’esplorazione autoscopica in tal senso, ma cercando conferma di tale possibilità, non la conversione dei danni.

D: Sei appena nato e stai succhiando il seno. Ora osserva e senti in che parte del corpo va questo latte dolce.

R: Lo sento nella pelle, dà freschezza.

D: Adesso tua madre stacca il petto e ti lascia mezzo allattato. Dimmi, qual è la parte del tuo corpo che protesta per la mancanza di quel latte che, a quanto dici, era dolce?

R: Come una fessura nell’ombelico. È come una ferita.

D: Cosa devi fare per risolverlo?

R: Metterci la mano.

D: Mettici la mano.

R: Esce il latte di lì.

Il paziente si sentì indolenzito anche nella zona del pancreas, attraverso cui lo portai, mediante  un’autoscopia, a vivenciar cosa succedeva a quell’organo.

R: Una parte è illuminata e l’altra no.

Di solito l’oscurità è segno di malattia, di non presa di coscienza di vita, come un’amputazione psichica.

D: Cosa succede alla parte che non ha luce?

R: L’hanno tolta

D: Dev’essere successo qualcosa di simile quand’eri piccolo, per questo la luce se n’è andata.

R: (si mette a piangere) Ho molto freddo.

Siccome il freddo è l’espressione dell’abbandono, della solitudine, nei primi stadi di percezione:

D: Ti hanno lasciato solo?

R: (piangendo, col respiro assai pesante) Sono nella culla. Piango. La luce è spenta e non viene nessuno. Ho paura.

Siccome la catarsi diventava sempre più intensa e non desideravo che J.X. uscisse dall’ISRA, troncai il suo senso di solitudine facendo in modo che qualcuno accendesse la luce ed entrasse:

R: È mia madre. Io voglio che stia sempre qui con me.

Gli feci osservare il pancreas e prese coscienza dell’analogia – cioè la relazione – che c’era tra la sua solitudine, la sua paura nella culla e la parte colpita – in ombra – del pancreas.

Il paziente si sentì colpito anche nella zona del pancreas, quindi lo portai, mediante un’autoscopia, a vivenciar cosa gli succedeva in quest’organo. 

D: Adesso sei più piccolo e sei pure solo.

R: Sto giocando con una bicicletta.

D: Cosa succede?

R: Sono caduto.

D: Piangi?

R: No, non piango; però non viene nessuno.

D: Come pensi di cavartela?

R: Sono in casa, non c’è nessuno, sono solo.

Nuove domande confermarono che nell’infanzia era quasi sempre rimasto solo. Sentirsi soli vuol dire sentirsi insicuri, senza protezione, impauriti. In definitiva, è carenza dell’autentica dolcezza e protezione

che è l’amore dei genitori. Quell’amore, che J.X., l’avesse o non l’avesse avuto – la verità è quella sentita come tale –, era qualcosa che lui sentì di non aver mai avuto. Del resto la biografia occulta di J.X. era

una topografia con alte vette di CAT d’abbandono. Quel che il suo pancreas voleva, nell’autoscopia, non erano dolci fisici, ma la dolcezza delle carezze.

D: Io credo che tu abbia bisogno di vedere ancora tuo padre e tua

madre insieme.

R: Mia madre è in cucina, mi abbraccia, mi dà baci sulla fronte.

D: Provalo, sentilo.

R: Mi manda caldo, il freddo se ne va.

D: Ho l’impressione che il tuo pancreas abbia bisogno di una sciarpa

che gli faccia passare il freddo. Dai, mandagli giù dalla fronte i baci.

R: Ora è arrivato mio padre. (Emozionato) Ci sono tutt’e due e mi

abbracciano.

In questa seduta prese ad illuminarsi la parte in ombra del pancreas. Gratificare non è CVP

Un’altra risorsa, che pure non va confusa con la conversione di vettori patologici, è l’utilità di gratificare il paziente quando s’arriva alla fine di ogni seduta. Così, se il paziente ha vivenciado la propria nascita,

quasi sempre dolorosa, conviene lasciarlo – in ISRA e come neonato, naturalmente – in braccio alla madre che lo allatta. Non c’è problema se la sua nascita non fu così, se non lo portarono in braccio alla madre

per farlo allattare, il neonato-paziente stesso lo farà notare. In tal caso lo si può gratificare con un’altra scena. Bisogna stare particolarmente attenti che la gratificazione non incida sui suoi mali in forma di CVP. Se ciò accadesse, bloccheremmo ancor di più il paziente.

È chiaro, pertanto, che l’anateorologo può indurre il paziente ad avere un’espansione di coscienza, può anche portarlo a vivenciar un CAG – ossia un fatto concreto della sua vita che sia gratificante –; può anche fargli sentire che vola come se fosse un gabbiano, ma senza dirgli che è un gabbiano, e neppure suggerirgli che avrà la vivencia dell’abbraccio di suo padre, se il problema del paziente ha la propria eziologia in un padre poco affettivo, che non lo ha mai abbracciato, e questo fatto non è stato risolto con sedute precedenti che lo abbiano portato alla comprensione.


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