
La sindrome del partigiano
Riflessioni sulla "Sindrome del Partigiano"
Possiamo dire che esista una sorta di "sindrome del partigiano"?
Secondo me sì e può riferirsi a un atteggiamento psicologico e culturale caratterizzato da:
- Rabbia non elaborata: Un risentimento persistente legato agli eventi del fascismo, nonostante siano passati ottant’anni (dal 1945 al 2025).
- Lutto non elaborato: Una difficoltà a lasciar andare il trauma storico della dittatura fascista e della Resistenza, che si manifesta in una continua rievocazione del conflitto.
- Autopercezione di superiorità morale: La convinzione che chi si identifica con l’antifascismo rappresenti esclusivamente la "parte giusta" o la libertà, escludendo altre prospettive.
Questo concetto richiama dinamiche psicologiche come il trauma transgenerazionale, il bisogno di appartenenza identitaria e la polarizzazione ideologica. Vediamo se è un’etichetta adeguata e quali elementi culturali ed emotivi la sostengono.
2. Analisi Culturale ed Emotiva
a) Il contesto storico e la memoria del fascismo (1922-1945)
Il fascismo (1922-1943) e la Resistenza (1943-1945) sono stati eventi traumatici per l’Italia, con conseguenze profonde sulla società, la politica e l’identità nazionale. La Resistenza, in particolare, è stata mitizzata come un momento fondativo della Repubblica Italiana, incarnando valori di libertà, democrazia e giustizia. Tuttavia:
- Memoria divisa: La memoria del fascismo e dell’antifascismo non è mai stata pienamente condivisa. Alcuni italiani vedono la Resistenza come un’eroica lotta per la libertà, mentre altri la considerano un periodo di violenza fratricida, con divisioni tra partigiani, fascisti e coloro che rimasero neutrali. Questa frattura si riflette ancora oggi in dibattiti politici e culturali.
- Uso politico dell’antifascismo: L’antifascismo è spesso invocato come bandiera ideologica, specialmente a sinistra, per legittimare posizioni politiche o per contrastare l’ascesa di movimenti di destra percepiti come neofascisti. Questo può alimentare una retorica polarizzata, dove l’antifascismo diventa un simbolo di superiorità morale
- Ottant’anni dopo (nel 2025): Il fascismo è un ricordo lontano per le nuove generazioni, ma il suo spettro è ancora evocato in dibattiti su populismo, autoritarismo o diritti civili. La persistenza di questa rabbia potrebbe riflettere un’incapacità di elaborare il passato, ma anche una reazione a fenomeni contemporanei che richiamano il fascismo (es. retoriche nazionaliste o limitazioni delle libertà).
b) Aspetti psicologici: lutto e rabbia non elaborati
Dal punto di vista psicologico, la "sindrome del partigiano" potrebbe essere letta come un trauma collettivo non risolto:
- Lutto non elaborato: La Resistenza ha lasciato cicatrici profonde, con famiglie divise, lutti per le vittime di entrambe le parti e un senso di ingiustizia per i crimini fascisti (es. stragi come Marzabotto) o per le vendette postbelliche. Questo trauma può essere tramandato culturalmente, mantenendo viva una narrazione di lotta incompiuta.
- Rabbia come identità: La rabbia contro il fascismo può diventare un elemento identitario per alcuni, che si sentono "eredi" dei partigiani. Questo può portare a un atteggiamento di chiusura verso chi non condivide la stessa visione, percependo ogni critica come una minaccia alla libertà.
- Polarizzazione morale: La convinzione di essere "gli unici dalla parte giusta" richiama il concetto di moral tribalism, dove un gruppo si autoattribuisce la superiorità etica, demonizzando l’altro. Questo è visibile nei dibattiti attuali, dove antifascisti e critici dell’antifascismo si accusano reciprocamente di tradire i valori democratici.
c) Aspetti culturali: la narrazione dell’antifascismo
Culturalmente, l’antifascismo è stato istituzionalizzato in Italia attraverso celebrazioni come il 25 aprile, musei, monumenti e l’educazione scolastica. Tuttavia:
- Mitizzazione della Resistenza: La narrazione dei partigiani come eroi senza macchia può semplificare la complessità storica, ignorando episodi controversi (es. esecuzioni sommarie) o il ruolo di chi non prese parte attiva. Questo può alimentare un senso di esclusività tra chi si identifica con l’antifascismo.
- Antifascismo come dogma: In alcuni contesti, l’antifascismo è diventato una sorta di ortodossia, dove dissentire è visto come un tradimento. Questo può generare l’illusione, come dici, che solo gli antifascisti rappresentino la libertà, escludendo altre prospettive democratiche.
- Confronto con il presente: La rabbia antifascista può essere anche una risposta a fenomeni moderni, come l’ascesa di movimenti di destra in Italia e in Europa (es. Fratelli d’Italia, che ha radici postfasciste). Questo fa sì che il passato venga continuamente rievocato per affrontare ansie contemporanee.
d) Aspetti emotivi: la vulnerabilità umana
Emotivamente, la "sindrome del partigiano" potrebbe riflettere un bisogno umano di appartenenza e significato:
- Identità attraverso il conflitto: Identificarsi come antifascista può dare un senso di scopo, specialmente in un’epoca di incertezza politica e culturale. La rabbia diventa un modo per riaffermare la propria identità contro un nemico percepito (il fascismo o i suoi eredi).
- Paura dell’oblio: La persistenza della rabbia potrebbe derivare dalla paura che il fascismo venga dimenticato o riabilitato. Questo è particolarmente sentito in un contesto globale dove autoritarismi e populismi guadagnano terreno.
- Sofferenza collettiva: La memoria del fascismo è intrisa di dolore per le vittime, le persecuzioni e le libertà perdute. Questa sofferenza può trasformarsi in rabbia quando si percepisce che il sacrificio dei partigiani non sia adeguatamente riconosciuto o che i loro valori siano minacciati.